Paola o della vergogna

Come ogni anno scolastico, siamo da mesi nelle classi con l’équipe dell’Associazione Alice Onlus (www.aliceonlus.org) per lavorare coi ragazzi sulla prevenzione primaria dei rischi in adolescenza.

I temi sono i più diversi: l’uso e l’abuso di sostanze, le nuove dipendenze, l’affettività e la sessualità irresponsabile, per dirne solo alcuni. Poi da quest’anno c’è anche “RispettaMI”, fiore all’occhiello con cui lavoriamo sulla prevenzione del femminicidio. In settimana Sergio Castellitto ha dichiarato in un’ intervista che un paese dove occorrono misure di questo tipo a sua avviso ammette una sconfitta: ha ragione.

Eppure.

Una delle (poche) regole che applichiamo è che i ragazzi non sono tenuti a partecipare all’intervento. Il motivo è semplice e dettato dal buonsenso: in 9 casi su 10, non l’hanno chiesto loro. L’ha scelto la scuola, certo pensando di rendere un buon servizio, ma senza interpellarli su un interesse o un bisogno reali.

Il patto è allora che possono mettersi in disparte a studiare in silenzio. In quasi 10 anni che faccio questo mestiere ne avranno approfittato in cinque, e forse arrotondo per eccesso.

Una di loro è Paola.

Intanto Paola dovete immaginarla difficile da immaginare: per più di 10 minuti, guardandola ti fa domandare se darle del tu o del lei. Potrebbe infatti essere benissimo la madre della sua amica Raffaella, vestita, pettinata e truccata com’è: da signora benevola che ti sorride al banco del fresco. Potrebbe avere qualunque età, ma sai che di anni ne ha 14, massimo 15, toh, 16: è in prima superiore.

La prima volta che la incontro si limita a stare defilata, ritirata, il più possibile invisibile.

La seconda e la terza volta dichiara di volersi chiamare fuori, dietro a ruota a Raffaella.

“Va bene”, dico, “posso sapere come mai?”

Ridacchiano.

“Eh, boh, cioè, non so…non c’ho voglia.”

D’accordo: patti chiari, amicizia lunga.

Nelle due ore successive lavoriamo con la classe, Raffaella si attacca all’i Pod disturbando e facendo la gradassa. Non aveva voglia davvero, e forse la noia la vince su ogni fronte.

Paola invece è persa: da dietro gli occhiali fuori moda, le pupille ronzano come mosche lungo orbite immaginarie e hanno l’unico scopo di non fare mai una sosta. Cosa stia facendo dopo pochi minuti è chiaro: sta evitando di posare lo sguardo su chicchessia, per evitare di scoprire se è a sua volta guardata.

Paola si vergogna.

La vergogna è un’ emozione secondaria: non nasciamo vergognandoci, Adamo ed Eva docent. Prima di poterci vergognare, dobbiamo aver imparato di cosa, e agli occhi di chi. Il problema è che nella stragrande maggioranza dei casi, quando ci vergogniamo, ci vergogniamo di noi stessi.

In adolescenza la vergogna può essere un sentimento devastante: proprio mentre si è alle prese col debutto sociale e la costruzione dell’identità, il sentimento di inadeguatezza ci fa lo sgambetto soprattutto nella società contemporanea dell’immagine e delle apparenze.

Vergognarci allora significa sentirci indegni: di mostrarci, di essere voluti bene, di essere vivi.

Mi si stringe un po’ lo stomaco, perché se per un attimo metto la camicetta a fiori di Paola, le maniche a palloncino mi fanno venir voglia di essere portata via, prima che l’aria pesante della Terra mi tolga il fiato. Paola vorrebbe che nessuno si accorgesse di quanto si senta sbagliata, e forse l’unica esperienza che davvero avrebbe bisogno di fare sarebbe proprio di essere guardata e vista per chi è.

Arriviamo alla fine del lavoro. Una battuta con la collega, il tempo di raccogliere borsa e cappotto e ho Paola alle spalle.

“Volevo chiedere scusa. Per non aver partecipato.”

Raffaella è già corsa fuori.

“Hai colto un’occasione che ti è stata offerta, perché te ne scusi?”

“Perché eravate qui per noi, ma io non ci sono stata. Ho mancato di rispetto al vostro tempo e al vostro lavoro.”

Lo dice con un po’ d’affanno, come se non avesse mai infilato una frase così lunga tutta insieme.

Resto di stucco. C’è una crepa nelle sue scuse che le rompe la voce, desidera realmente che io la perdoni.

Le sorrido e resto in silenzio. E nel silenzio parla.

“Io mi trovo in imbarazzo in queste situazioni. Con gli altri, non so. Non credo sia davvero un problema perché coi miei non mi capita, ma fuori di casa sì. Non so mai cosa devo dire e come devo fare e così evito.”

“Caspita, curioso: guarda con me invece come sei appena stata brava.”

Pare le abbia parlato in toki pona.

“In che senso ‘brava’?”

“Be’, sei stata brava: mi dici che sei a disagio con gli altri, eppure ad una quasi sconosciuta sei venuta a dirlo, a scusarti, a lasciarti conoscere un pochino. Non eri tenuta a farlo eppure l’hai fatto. Questa si chiama competenza relazionale. Quindi…chissà se è così vero che non sei capace: a me hai appena dimostrato il contrario.”

“Veramente a me ‘brava’ non me l’aveva mai detto nessuno.”

1 thoughts on “Paola o della vergogna

Lascia un commento